La mattina sono andata a casa sua, entrando con le chiavi che mi aveva dato. Non mi ha sorpreso trovarla semivuota - con soltanto il letto, il comodino, due sedie, la scrivania, la TV e gli armadi a muro, oltre a un paio di piatti e di tazze in cucina - perché in attesa che scadesse l’affitto, prima di trasferirsi nel mio appartamento, già fin troppo arredato e pieno, aveva restituito a sua madre quasi tutti i mobili. Eppure mi ha fatto impressione così disfatta e disadorna: mi ha dato l’idea di essere una casa abbandonata da un pezzo, disabitata da molto più di un giorno.
Era silenziosa, impolverata e squallida e l’ho resa ancora più squallida e disordinata frugando negli armadi e sotto il letto, nel comodino e nei cassetti di cucina, nel cestino della carta e nella pattumiera in cerca di una lettera, di un foglio, di una pagina strappata, di un appunto su un giornale, di un’annotazione, di una traccia qualsiasi per risalire ai pensieri di chi da lì se n’era andato.
Mi sono aggirata in quelle tre stanze senza capire, contando e ricontando i vestiti rimasti appesi e le camicie lasciate sui ripiani, faticosamente cercando di ricordare cosa mancasse, quanto mancasse. Sostare nell’appartamento di uno che è sparito è come sostare nella casa di un morto. Si potrebbe scoprire di lui un volto diverso da quello conosciuto, qualche brandello di vita, qualche antico segreto, magari, qualche debolezza, qualche vergogna. Ma io non ho scoperto niente, nessun segreto, nessuna vergogna, solo assenza di lunga data, come se se ne fosse andato via da molti mesi, come se la ferita della sua scomparsa fosse, in un certo senso, già abituale, già rimarginata.
(Isabella Bossi Fedrigotti, Cari saluti)

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